LE POSTVISIONI DEL TEMPO
1 Novembre 2010
La situazione meteo
assai precaria, con piogge intense e fenomeni dannosi per il territorio tanto
più probabili quanto più a lungo dura il maltempo, non è stata messa in evidenza
nel modo dovuto, dagli organi preposti, ad "alto livello" (stato e regione).
Probabilmente i responsabili della "Protezione civile" di queste istituzioni
dovevano pensare a proteggere altro e altri. Eppure non erano
mancate le informazioni chiare e convincenti: nel sito dell'Aeronautica militare
già due giorni prima era segnalata una situazione di massimo allarme (rosso) per
la maggior parte delle regioni settentrionali, e per alcune dell'Italia
centrale; l'ARPAV del Veneto, nel bollettino del 31 ottobre, aveva previsto:
"... Considerando le intere giornate di domenica e
lunedì, gli apporti di pioggia saranno notevoli, mediamente di 150/250 mm con
punte che potranno avvicinarsi ai 350/400 mm sulle Prealpi;..." E'
evidente, anche ai più sprovveduti, che con tali quantità di precipitazione ci
sono dei problemi gravi, e chi non è a conoscenza della situazione può
andare incontro a consistenti pericoli.
Naturalmente anche gli "organi"
d'informazione, soprattutto televisiva, hanno una pesante responsabilità, quando
nascondono queste evidenze; ma è ovvio che le vicende di potenti politici con le
loro puttanelle e lo sciacallaggio sui delitti più efferati fanno molta più
"odienss!" E questo non basta! Se non si verificano gli eventi
calamitosi preannunciati (che naturalmente sono sempre accompagnati dalla
corrispondente probabilità di verificarsi), chi ha diffuso l'informazione rischia ancora la denuncia per
"procurato allarme"!
5 Novembre 2010
La perturbazione è passata, i danni che ha
lasciato nel Veneto (e non solo) sono ogni giorno più evidenti. Molti cercano di quantificarli, questi
danni, e sparano cifre che stanno in un range (differenza tra la più alta
e la più bassa) assurdo: ho sentito (da personaggi con importanti cariche)
valori che vanno da x a dieci volte x! Questo è un chiaro esempio di
gente che parla a vanvera, sparando numeri solo per ottenere un forte effetto
mediatico: quel che è triste, è che ora nessuno ha gli elementi per quantificare
in modo sia pur approssimato il danno, e questo potrebbe risultare anche
superiore a quelle sparate mediatiche. Ed è il momento della "caccia ai
colpevoli", e fa un po' pena sentire baldanzosi e talvolta arroganti
amministratori leghisti chiedere l'aiuto di Roma per una regione del mitico e
inossidabile Nordest.
Il "colpevole" dell'"alluvione veneta", come di tutte le
altre che a partire dagli anni '60 del secolo scorso hanno devastato ogni anno
varie regioni, dall'estremo sud fino alla valle Aurina, è la sempre più scarsa attenzione
ai temi dell'ambiente, negli aspetti che coinvolgono in particolare la
situazione geologica del territorio: condizioni di frane,
torrenti e fiumi, sismicità; l'INGV è l'istituto preposto a questi studi
e controlli, i suoi dipendenti sono scienziati e tecnici esperti in geologia,
vulcanologia e discipline affini: anziché essere rafforzato, l'INGV sta
per essere ridimensionato, con il "licenziamento" di numerosi ricercatori
"precari" che vi
lavoravano da anni. E poi ci si chiede di chi è la colpa dei disastri
ambientali! A partire dagli anni
'60 (miracolo economico!) è anche cominciato quel cambiamento di atteggiamento nei confronti del
territorio che ha portato alle devastazioni e trascuratezze che arrecano i
disastri. Territorio e ambiente vengono visti come un
bene economico da cui trarre, nel tempo più breve, il massimo profitto:
come conseguenza di questa "filosofia ambientale" vengono poi gli abusi con
cementificazioni selvagge, urbanizzazione di aree a rischio e tante altre
nefandezze:
ecco dove sta la causa di alluvioni, di edifici che crollano per una "lieve"
scossa, di frane rovinose...
Tante concause, grandi e piccole, si sommano e alla fine si producono le
catastrofi.
Negli ultimi 50 anni sono stati rari, in Italia, gli interventi finalizzati alla
difesa del territorio e alla manutenzione dell'esistente: si agisce -ma non
sempre- dopo che le calamità sono avvenute, con costi molto più alti e minor
efficacia. E' evidente che la mancata difesa del suolo, in particolare in
montagna e in collina, provoca fenomeni di erosione imponenti; il materiale
viene trasportato a valle e depositato sull'alveo di torrenti e fiumi, man mano
che la velocità della corrente diminuisce; così il letto dei corsi d'acqua si
innalza, e aumenta di conseguenza la possibilità di esondazioni e rotture degli
argini, anche in pianura; la difesa della montagna, dunque, è una tutela anche
per la pianura.
L'atteggiamento di cui abbiamo detto sopra, che ha portato
quasi ad annullare gli investimenti per la difesa del suolo, è un eloquente indicatore
di una visione miope ed egoistica della società, che pensa solo all'immediato e
non investe nel futuro: impedire oggi che le montagne vengano erose e portate
a valle, significa mettere in sicurezza anche la pianura per gli anni a venire,
quindi è un investimento con effetti positivi nel lungo periodo; e proprio
questo fatto blocca tali investimenti, perché l'egoismo economico imperante
spinge ad investimenti con rese immediate: per fare un esempio brutale, i
padroni della finanza preferiscono investire in traffico di armi, di droga e di
esseri umani, piuttosto che nella difesa del suolo; se poi le organizzazioni
malavitose controllano intere regioni, si comprende anche perché in quelle
regioni le "calamità naturali" sono ancora più frequenti.
In tempi relativamente
lontani, prima e dopo la guerra 15/18, furono realizzati numerosi interventi in
difesa del suolo in montagna, nonostante le condizioni assai misere dell'Italia
di allora; questa azione continuò in misura ancora più determinata durante il
periodo fascista: numerose "briglie" e salti su valloni e torrenti realizzati
nel "ventennio" recano caratteristiche iscrizioni. Anche dopo la seconda guerra
mondiale furono realizzate varie opere, in particolare piccole dighe (briglie) a
smorzare l'impeto dei torrenti. Negli anni '50 furono però anche costruite
numerose dighe per lo sfruttamento dell'acqua al fine di produrre corrente, e
cominciò ad affermarsi la visione di un territorio da sfruttare a tutti i costi, anziché da
tutelare: non a caso si arrivò al tragico disastro del Vaiònt. Gli interventi di difesa del suolo andarono cessando negli anni '60,
se si eccettua l'opera di recupero -incompleta- dopo l'alluvione del 1966. E' strano, ma le
cose stanno così: in periodi in cui non era ancora sviluppata la "coscienza
ambientale", si interveniva in difesa dell'ambiente più di oggi; in assenza di
tutti quei piccoli e grandi lavori di tutela, realizzati nei decenni precedenti
il 1960, le alluvioni del 1966 e del 1
novembre 2010 sarebbero state assai più devastanti anche nel Veneto.
Nel caso della
attuale "alluvione veneta" non si può parlare di
evento di rara ed eccezionale portata, checché ne dica il "governatore"
Zaia. L'acqua, in quantità rilevante, è caduta in tre giorni; si citano
continuamente "500mm di pioggia": questo può essere il dato di qualche località,
non certo di tutta la regione; io ho registrato 397mm (160, 191, 46
rispettivamente il 31 ottobre, l'1 e il 2 novembre). I confronti, tanto
sbandierati da Zaia, con l'alluvione del 1966 (l'attuale sarebbe secondo lui più
robusta) sono penosi; se Zaia sa contare fino a 100, conti i morti di allora e
quelli di oggi; chissà che almeno questo macabro confronto lo zittisca; inoltre,
a dispetto delle apparenze, Zaia non esisteva, nel '66, quindi sparla
fidando nell'ignoranza o dimenticanza della gente. Io ricordo molto bene quel 4
novembre; il giorno 3 erano caduti pochi mm d'acqua, con neve sopra i mille
metri, e una temperatura di 5 °C; nella notte successiva arriva una
violenta ondata di scirocco, con precipitazioni di estrema violenza, temperatura di
colpo a 13 °C, e così fino alla sera con tuoni e vento violentissimo (intere
peccete stroncate a metà, tetti di abitazioni strappati; ricordo il tetto (in
lamiera) della abitazione del prof. Giovanni Fantinel (Lampo) volato intero per
più di 500m su fino al campo sportivo di Tomo); e oltre 400mm d'acqua caduti in
pratica in un solo giorno. E' evidente che in qualche località la quantità
d'acqua complessiva caduta nel 2010 può essere superiore a quella del '66, ma
sarebbe assurdo dedurne che questo evento sia stato meno devastante di quello
odierno.
Pesante è invece la
responsabilità della mancata informazione su quello che con congruo anticipo si sapeva sarebbe potuto
accadere: l'allarme rosso (livello massimo) per le
regioni del centro-nord che sarebbero state investite dal
maltempo era stato dichiarato dal servizio meteo dell'aeronautica militare italiana
(http://www.meteoam.it/), mentre da Arabba
l'ARPAV (http://www.arpa.veneto.it/bollettini/htm/dolomiti_meteo.asp) aveva previsto precipitazioni fino a 400mm sulle Prealpi. L'inerzia
di chi, ad alti livelli, avrebbe dovuto diffondere l'allarme e nulla ha fatto (forse per non
turbare il movimento di gente (ricorrenza dei "defunti") che porta un forte
flusso di denaro) è estremamente grave. Va detto che non possono essere i
sindaci di piccole comunità a decidere lo stato di allerta, di fronte a queste
situazioni di pericolo generale diffuso a zone tanto vaste. Anni addietro una lobby
arrivò a denunciare i servizi meteo che sarebbero stati eccessivamente
pessimistici per la montagna bellunese: tipico esempio di stupidità
cortomirante, ma con effetti pesanti su chi è tenuto a fornire informazioni
relative a possibili eventi dannosi.
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